Nell’ambito di un procedimento giudiziario in Italia, può essere indispensabile, ai fini della prova, produrre dei documenti di provenienza straniera, non redatti originalmente in italiano; si pone, pertanto, il quesito se a tali documenti debbano essere allegate le relative traduzioni.
La disciplina sul tema è data dagli artt. 122 e 123 del Codice di Procedura Civile, i quali dispongono, rispettivamente:
In tutto il processo è prescritto l’uso della lingua italiana. Quando deve essere sentito chi non conosce la lingua italiana, il giudice può nominare un interprete. Questi, prima di esercitare le sue funzioni, presta giuramento davanti al giudice di adempiere fedelmente il suo ufficio.
Quando occorre procedere all’esame di documenti che non sono scritti in lingua italiana, il giudice può nominare un traduttore, il quale presta giuramento a norma dell’articolo precedente.
Secondo l’interpretazione prevalente della giurisprudenza, il principio dell’obbligatorietà della lingua italiana di cui all’art. 122 si applica solo agli atti processuali in senso stretto e non anche ai documenti prodotti dalle parti.
Nel caso in cui vengano esibite delle prove documentali redatte in lingua straniera, pertanto, il giudice ha la facoltà, e non l’obbligo, di nominare con un’ordinanza un traduttore ai sensi dell’art. 123: tale nomina non è dovuta se il testo risulta essere di facile comprensione; diventa, invece, necessaria quando il giudice non dispone di sufficienti conoscenze linguistiche oppure se il contenuto del documento o la traduzione giurata allegata dalla parte sono fonte di contestazioni delle parti (Cass. n. 15342 del 6 giugno 2019).
È in ogni caso escluso che il giudice possa rifiutarsi di esaminare un documento solo a causa della mancanza di una traduzione (Cass. n. 10125 del 18 maggio 2015).